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DAL CAOS ALLA COMPOSIZIONE DEGLI ELEMENTI VISIVI

LO SGUARDO SUL MONDO:
DAL CAOS ALLA COMPOSIZIONE DEGLI ELEMENTI VISIVI


Cerco ed ho sempre cercato una rappresentazione che risultasse pulita ed interessante senza andare a tutti i costi nel sensazionalismo. Una estetica che fosse legata a contenuti e ad una composizione rigorosa per linee luci ombre piani cromatismi. Questa cosa ha portato molti miei interlocutori a definire la mia fotografia come “reportage classico” Confesso che in molte di queste occasioni mi è parso di comprendere che fosse una critica elegante per definirmi “fotografo vecchio stile”, cosa che poi non ho mai ben capito cosa implicasse! Ora certa è la mia anagrafica ed anche il fatto che io abbia imparato a fotografare studiando il lavoro dei grandi negli anni ’80 del secolo scorso. Uno su tutti Salgado, ad iniziare dai suoi reportage in Africa negli anni ’80, quello sulla Sierra Pelada del 1986... Ora una cosa è sicura: pochi di questi avrebbero il coraggio di definire Salgado “fotografo vecchio stile”, per cui mi domando che senso avesse etichettare uno stile come vecchio o nuovo! C’è la fotografia, la narrativa, il cinema, il teatro… e come si rappresentano e si apprezzano i classici dopo 2000 anni e più si dovrebbe apprezzare anche il “reportage classico” se autoriale e fatto bene. O no? Detto questo anche vero che non mi sono convertito ai paesaggioni iper tecnologici (inflazionati e possibili solo con le nuove attrezzature digitali) stelle + tramonto + notturno e tanto meno alla street photography, anche se riguardando certi miei scatti di 20 anni fa… Ora sicuro è che viviamo un’epoca in cui tutti sono fotographerssss, e per la maggior parte fotografi di paesaggi cartolina o presunti street photographer, e in cui la confusione su cosa sia la buona fotografia è massima. Visto e considerato tutto ciò se mi è permesso darei un consiglio ai molti che vorrebbero fare qualche cosa di buono e che resti nel tempo. Consiglierei di spendere un poco di tempo per studiare la lezione dei “veri” grandi fotografi di paesaggio (Adams, Brandt, Weston, Fontana, Kenna…) e dei “veri” grandi street photographer (Meyerowitz, Friedlander, Winogrand, Gilden, Webb, Gruyaert, Ben Avraham…) La street quella vera non è fatta di immagini sottoesposte di 3 stop tutte ombre e zero soggetti. Tanto per evitare di passare alla storia come street photographer “ad minchiam”…

006_MG_4280.jpg001_MG_7573.jpg006_5D_3208.jpg002_5D_0999.jpg005_MG_7818.jpg003_MG_7041.jpg012.jpgIMG_0020.JPGazalai_001.jpg011Atakpame_Togo_2000.jpgfotoPratica011.jpg

VEDIAMO QUELLO CHE CONOSCIAMO

VEDIAMO QUELLO CHE CONOSCIAMO
FOTOGRAFIAMO QUELLO CHE CONOSCIAMO

Un proverbio africano dice che lo straniero vede solo ciò che già conosce. Affermazione quanto mai vera nel caso di molti turisti-fotografi. Quante volte, nelle proiezioni di amici reduci da un viaggio in un paese “esotico”, abbiamo visto immagini di gente stracciata, vestita all'occidentale o seduta davanti alla televisione intenta a guardare onnipresenti telenovelas? Le fotografie che vediamo (e scattiamo) assomigliano molto di più a quelle viste sui cataloghi che abbiamo sfogliato prima di partire. Per dirla con Crawshaw e Urry, il turismo induce memoria e in un certo modo si appropria della memoria di altri. Così molte delle immagini che consumiamo visivamente sono in realtà il ricordo fissato nella memoria di altri che successivamente viene consumato da noi.
Marco Aime


Metropolitana e skyline a Meskel Square
Addis Ababa - Ethiopia 2019

Voie de degagement Nord a Nord Foire
Dakar - Senegal 2013

Ricevimento di Matrimonio
Addis Ababa - Etiopia 2014

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COSA STO FOTOGRAFANDO?

COSA STO FOTOGRAFANDO?
PERCHÉ STO FOTOGRAFANDO?
PER CHI STO FOTOGRAFANDO?

Se queste tre domande avessero sempre una risposta, ci sarebbero molte meno immagini ma qualche buona fotografia in più.
CitAZIONE Gabriele Chiesa


L’avvento di internet e del digitale ci ha reso “tutti fotografi” ha permesso a tanti che prima di questa rivoluzione non sarebbero stati presi in considerazione, di sentirsi fotografi, autori di un numero inimmaginabile di immagini fruibili ovunque, una produzione inconsapevole e senza senso. Si fotografa senza più studiare, c’è la proliferazione di una fotografia istintiva che è una sorta di analfabetismo diffuso. Impossibile scrivere bene se non conosci la grammatica! Nonostante tutto questo "tutti" convinti di essere creativi e fare foto speciali: nel web, nei social, nei contest, c’è sempre qualcuno che prende gli scatti delle sue vacanze troppo sul serio. Solo in una parte molto ridotta della fotografia che si vede oggi su social web & media sharing si legge un progetto fotografico, un qualcosa che vale la pena di essere raccontato. Il più delle volte sembra di leggere soltanto una sorta di egocentrismo del fotografo: ho fatto una bella foto, quindi sono un bravo fotografo. Ed ancora: l'immaginario del "fotografo" è ormai saturo di inquadrature e soggetti che diventano modelli ideali per le sue fotografie. L’occhio si abitua al cliché: quel soggetto, quella composizione, quei colori. Si viaggia alla ricerca della "location", del luogo famoso, alla ricerca del punto di ripresa più gettonato sul web, sulla guida, sulla rivista. Così, inconsapevolmente, produciamo immagini ripetitive, simili tra loro, immagini noiose.La verità è che parole come creatività, individualità, talento e originalità non si applicano facilmente in un mondo dove chiunque scatta fotografie. La fotografia ha un senso quando trova soggetti davvero originali, quando è la narrazione della "propria, individuale percezione del mondo". La vera arte della fotocamera sta nello svelare qualcosa di nuovo, di personale, di rivelatorio.

WORKSHOP A CHEFCHAOUEN

WORKSHOP A CHEFCHAOUEN
1° EDIZIONE DAL 30 ott AL 4 nov 2017

Chefchaouen è conosciuta come la città blu, tutte le case della sua medina, muri, porte, finestre strade sono colorate di questa tonalità. Situata nella valle del Rif, la regione montuosa del Marocco settentrionale, sconosciuta in europa sino agli anni cinquanta, è tuttora un gioiello nascosto al turismo di massa. Piccole piazze, viottoli lastricati, luoghi di culto e case dipinte di blu con portoni in legno intagliato e cornici di maioliche. Chefchaouen è un piccolo gioiello architettonico dichiarato Patrimonio UNESCO dal 2010. Dal 30 Ottobre al 4 Novembre a Chefchaouen si è tenuto un mio workshop di fotografia, di reportage geografico. Ora è difficile dire se chi partecipa ad un workshop o ad un viaggio fotografico impara a fotografare, difficile precisare cosa e quanto. Di sicuro i tempi scelti per questa esperienza, la presenza di altri fotografi e quella di un Master sono gli strumenti necessari per interpretare il mondo in un modo diverso, per capire il soggetto, vedere la luce, imparare a muoversi nella scena, guidati dal fotografo docente e supportati dal gruppo, ma sempre in modo personale e seguendo le proprie emozioni. Perdersi a guardare è fondamentale, scriveva Mimmo Jodice, il lavoro di gruppo porta i singoli partecipanti a confrontasi con le scelte degli altri compagni dando forma ad un viaggio che contiene tanti viaggi, quelli dei singoli partecipanti, ognuno orientato dalla propria sensibilità e dalle proprie scelte verso la ricerca dello spirito del luogo. Ricerca, preparazione, attenzione per arrivare ad un lavoro caratterizzato da coerenza, contenuti, valore estetico ed originalità: qualità che permettono di raccontare persone, luoghi ed eventi, diventando reportage. In qualsiasi caso questo workshop ha confermato che Chefchaouen è quale meta ideale per shooting molto interessanti, e qui potete ammirare il reportage realizzato a più mani dai partecipanti al workshop: Rosalinda Fedrighini, Luisa Ricci, Marco Murruzzu, Roberto Pileri, Michele Partipilo, Pierfranco Ramone. Dopo questo scontato successo, considerata la bellezza di Chefchaouen e la facilità di girare per la sua medina, ho deciso di riproporre per Marzo 2018 una nuova edizione del workshop. Vi aspetto!

VEDI QUI LA NUOVA EDIZIONE DI MARZO 2018

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LA FABBRICA DEGLI STEREOTIPI

LA FABBRICA DEGLI STEREOTIPI

L’avvento di internet e del digitale ci ha reso “tutti fotografi” ha permesso a tanti che prima di questa rivoluzione non sarebbero stati presi in considerazione, di sentirsi fotografi, autori di un numero inimmaginabile di immagini fruibili ovunque, una produzione inconsapevole e senza senso.
Si fotografa senza più studiare, c’è la proliferazione di una fotografia istintiva che è una sorta di analfabetismo diffuso. Impossibile scrivere bene se non conosci la grammatica!
Tutti convinti di essere creativi e fare foto speciali: nel web, nei social, nei contest, c’è sempre qualcuno che prende gli scatti delle sue vacanze troppo sul serio. Solo in una parte molto ridotta della fotografia che si vede oggi sul web si legge un progetto fotografico, un qualcosa che vale la pena di essere raccontato. Il più delle volte sembra di leggere soltanto una sorta di egocentrismo del fotografo: ho fatto una bella foto, quindi sono un bravo fotografo.
Ciò che manca oggi non è la tecnica, anzi di tecnica c’è né anche troppa, manca quanto fa della fotografia un sentimento, un valore, una necessità: il fatto di continuare a scattare senza farsi alcuna domanda non ha più niente a che vedere con la nascita e l’evoluzione della fotografia, quella fatta di luce, tempo, documento, racconto e volontà.
La quantità di immagini esistenti al giorno d’oggi è incalcolabile e la sua crescita, a causa della facilità con cui oggi ognuno di noi può scattare fotografie, è esponenziale: ma quante di queste immagini sono rilevanti? Poche!Una successione di scatti tutti, o quasi, concepiti e realizzati attraverso gli stessi identici stilemi, ormai diventati degli stereotipi talmente invasivi da risultare immediatamente riconoscibili e soffocanti. Colori gravidi e densissimi, forti contrasti, inquadrature fotocopia: parrebbe che la fotografia, soprattutto quella concepita per partecipare ai contest internazionali, non sia il prodotto di un pensiero, di uno sguardo, di un racconto, del desiderio di un autore di mettere a fuoco una storia e le vicende di esseri umani, ma semplicemente un’attività basata sulla elaborazione di immagini fondate su un concetto creativo performativo ed effettistico, dunque totalmente superficiale.
Il nostro immaginario è ormai saturo di inquadrature e soggetti che per questo diventano modelli per le nostre fotografie: è l’occhio che si abitua a certi tipi di composizione, e così, inconsapevolmente, produciamo immagini ripetitive, simili tra loro, immagini noiose.La verità è che parole come creatività, individualità, talento e originalità non si applicano facilmente in un mondo dove chiunque scatta fotografie. La fotografia ha un senso quando trova soggetti davvero originali, quando è la narrazione del mondo, la vera arte della fotocamera sta nello svelare qualcosa di nuovo, di personale, di rivelatorio.
Narrare rappresenta l’unico modo che l’essere umano possiede per far conoscere un accaduto e la via attraverso cui dare forma alla propria identità.
La narrazione non è mai il riportare fedele della realtà, in quanto la percezione di quest’ultima è soggetta all’interpretazione dell’osservatore. Ciò che è nella mia realtà è una selezione interpretativa della realtà. Non esiste una realtà universale ed un unico modo di percepirla; la realtà è relativa alla percezione che ognuno ha di essa e il suo significato è strettamente personale, sociale e culturale. Narrare rappresenta, quindi, un’operazione di consapevolezza in quanto equivale a costruire una propria visione di se stessi e del mondo: sono io come narratore che, nel momento in cui racconto qualcosa, opero una selezione, un’organizzazione del materiale disponibile.
La maggior parte dei fotoamatori pensa che la propria missione consista nel fotografare dei soggetti, ma quelli stanno lì, basta passare e fare clic. La fotografia è ben altro, è scoprire il lato oscuro del mondo, dare rappresentabilità alle emozioni, espandere l’immaginario e il sogno, e per far questo non occorre poi tanta tecnica, occorre soprattutto lavorare su se stessi, esercitarsi a pensare. Scegliere soggetto e momento, determinare consapevolmente l’emozione che l’immagine può trasmettere, dare significato alle cose. Questo è uno dei possibili approcci creativi alla fotografia, dell’uso di uno apparecchio fotografico che vada oltre alla piana documentazione. In questo modo la fotografia va ben oltre all’esercizio puramente tecnico, si propone come mezzo per penetrare al fondo delle cose, per enucleare quanto sfugge alla visione, per creare magiche sintesi del mondo. Per giungere a questa narrazione, processo attivo di produzione di senso, dobbiamo muoverci da quelle singole immagini che di per sé hanno memoria di suoni, voci, odori per avvicinarsi all’insieme delle fotografie, alla loro disposizione che genera racconti, nessi logici ed emotivi, ad un editing corretto sia nella scelta che nella sequenza che crea il movimento drammatico e narrativo.La morale è: se proprio volete scattare delle grandiose foto, non andate in crociera. Andate piuttosto in zone di guerra, o nell’appartamento dei vostri genitori.

Le fotografie:
Learning From the Nomads
Ladakh – India
© Ronald Patrick
Queste immagini si impongono subito per il loro essere “diverse” in quanto molto lontane da ciò che lo stereotipo turistico del Ladakh di norma propone. Niente colore, zero monasteri e monachelli, nessuna concessione al facile fascino dell’esotico. Il lavoro è un progetto personale sulla migrazione dei popoli, e si propone di rappresentare la migrazione in modo positivo, in quanto di norma, il termine "migrazione" è associato a sofferenza e tristezza, dimenticando che per migliaia e migliaia di anni è stata condizione normale per tutta l’umanità

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COSA E COME FOTOGRAFARE

COSA E COME FOTOGRAFARE
Ovvero prima dell'attrezzatura idee ed esperienze di vita


Con la fotografia si può raccontare il mondo: la gioia ed il dolore, la guerra e una nuova vita, il primo uomo sulla luna, i grandi eventi per l’umanità, carestie e siccità, culture e religioni diverse. Il mondo può essere quello lontano sepolto sotto la valanga verde di una foresta pluviale, quello della caotica metropoli dove vivono decine di milioni di abitanti, la savana rovente dove l’antenato dell’uomo ha mosso i primi passi migliaia di anni fa. Può essere altro ancora, niente di esotico, il mondo può essere semplicemente la piazza dietro casa, in una tranquilla periferia cittadina. Vecchi muri scrostati e cartelli d’alluminio, l’ombra di alberi cresciuti a stento, insegne al neon e gli amici di sempre. Un’ultima opzione, una riflessione: il mondo raccontato può essere quello interiore. Senza alcun dubbio la categoria dell'esotico è quella più frequentata dai fotografi, professionisti o no, ed altrettanto vero è che la fotografia di viaggio si muove quasi sempre sul limite dello sconfinamento nell'esotico a tutti i costi. Troppo spesso il visibile viene così confuso con lo “spettacolare” che raramente rappresenta il vero. Più difficile invece credere, capire, che è la percezione dell’invisibile, l’operazione creativa ed artistica di rendere tangibile - sonoro - raccontabile - visibile l’invisibile, che crea la buona fotografia, anche quella di viaggio. Le innumerevoli fotografie, quelle proposte dai media o anche solo quelle di un ndimenticabile viaggio nel luogo esotico, oscillano sempre tra realtà e rappresentazione, tra documentazione ed interpretazione. Un’importante distinzione, subito necessaria, è quella tra le belle fotografie e le buone fotografie. Uno degli scopi di chi osserva il mondo anche attraverso l’oculare della macchina fotografica, dovrebbe essere quello di cercare le buone fotografie, quelle che raccontano andando oltre la mera soddisfazione estetica. E’ in queste fotografie, le buone, che si manifesta una dimensione privata dello scatto, una cristallizzazione dei sentimenti in cui autore e osservatore si riconoscono. E’ in queste che la fotografia chiarisce il suo rapporto con il reale, svincolandosi da esso per divenire spazio mentale, immaginario, lirico e visionario. Il fotografo, oltre ai suoi apparati meccanici, alle varie e possibili scelte operabili con la determinazione di un preciso obiettivo, di una pellicola o di un accessorio, innanzitutto antepone alla sua vista le lenti colorate del suo cervello. E’ sicuramente un punto di vista accettabile anche quello di chi ha sostenuto, in nome di un realismo quasi scientifico, che il fotografo deve scattare asetticamente come se non esistesse. Davanti al suo soggetto però il fotografo si trova sempre a dover scegliere tra infinite possibilità: scegliere in armonia con il suo mondo interiore, quell’attimo, non prima, non dopo, che potrà dare la misura della sua visione. Quindi il realismo in fotografia è pur sempre creazione e non piatta riproduzione della realtà, creazione che non indulge nell’autobiografia, nell’accademismo, nel lirismo. Ogni fotografo si esprime a suo modo, basterà variare l’inquadratura, lunghezza focale dell’obiettivo, l’ora di ripresa, emulsioni, filtro, messa a fuoco, esposizione. Per mezzo della tecnica si manifesta un suo stato d’animo scaturito dall’incontro con il soggetto. La fotografia è un linguaggio, un sistema di comunicazione, ma a differenza della scrittura scavalca le barriere linguistiche e a volte anche quelle culturali. Se si afferma che l’arte è la firma dell’uomo, uno stile artistico è la firma di un determinato uomo e una finestra sull’epoca in cui egli là creato. Questo "stile" è determinato essenzialmente dalla personalità di chi lo esprime, in cui si riassumono i dati dell’esperienze di vita, la disponibilità di determinate attrezzature, le conoscenze, il carattere, le idee e le convinzioni di ciascuno. In questo senso, lo stile caratterizza e personalizza il lavoro di un uomo in modo che esso giunge a differenziarsi da ogni altro. Esso però, soprattutto in fotografia, rappresenta un problema notevole: il fatto di ottenere delle immagini mediante un procedimento meccanico comporta una estrema difficoltà a imprimere in esse qualcosa che indichi chiaramente il suo autore. Tuttavia diversi elementi concorrono a facilitare uno stile personale. In primo luogo la storia di ciascuno, con la sua formazione culturale, il suo patrimonio di conoscenze, la sua sensibilità e la sua personalità: questi fattori determinano una “visione del mondo” che conduce in una direzione piuttosto che in un’altra, che lo porta a vedere in un determinato modo e a “sentire” secondo la propria disponibilità. In secondo luogo il presente storico, cioè il momento politico sociale culturale che vissuto con maggiore o minore adesione e spirito critico, determina l’ambiente entro cui nasce e si sviluppa una determinata idea. In questo senso l’approccio ad un soggetto è sempre estremamente personale: si tratta di vedere, all’interno dello strumento di comunicazione, quali momenti servono per tradurre un modo di vedere personale in un modo di esprimersi altrettanto personale. Il modo con cui ci si pone culturalmente di fronte al soggetto, la composizione che delimita, sottolinea enfatizza. La presenza di “second stories” nel fotogramma invece di delimitare rigorosamente il soggetto, l'uso della messa a fuoco "iperfocale o selettiva". E ancora l'uso di ottiche che rendono prospettive estreme, la qualità della postproduzione, immagini morbide piuttosto che dure, la stampa dell’intero fotogramma, tutto questo e tanto d'altro, significa operare delle scelte consone al proprio modo di vedere le cose. E ogni scelta determina delle costanti caratteristiche che possono servire a costituire uno stile, valido sempre, al di là del “genere fotografico”. Detto questo resta un punto centrale, che poi è quello meno considerato dalla massa di chi fotografa: l’idea, il progetto, deve guidare alle scelte tecniche. Eppure, cosa capita? Tanti partono per il "viaggio", quello atteso per una vita, con un misero bagaglio di nozioni su luoghi e popoli che si incontreranno, senza alcuna idea di ciò che vedranno, per giorni e giorni a “caccia “ di soggetti, fotografie di centinaia di singoli momenti, di particolari a prima vista interessanti. Poi tornati a casa si accorgono che c'era molto d'altro, qualcosa che si poteva raccontare. Tutto questo significa anteporre il fare all’idea. Ovviamente, lo stesso fotografo si meraviglia se gli eventuali spettatori non riescono a capire quello che voleva dire. Non bisogna dimenticare che prima si fotografa con la mente. La fotografia può così diventare una verifica di quanto si è sognato, con una serie di chiavi di interpretazioni della realtà. Ma le idee purtroppo non si comprano nei negozi di ottica come gli obiettivi ultraluminosi o i sensori ultrasensili. Occorre cercarsele, con fasi di studio, di riflessione, di approfondimento, da condurre con la lettura, la discussione, il confronto, l’analisi. Faticoso ma tutto ciò rappresenta la base imprescindibile per la riuscita di un discorso. Solo dopo aver studiato a fondo il proprio soggetto, dopo aver chiarito l’idea guida che deve giustificare un certo approccio, dopo esserci lungamente confrontati con essa, dopo aver vissuto, solo dopo questo sarà possibile iniziare a costruire una impalcatura sufficientemente organica che giustifichi il fare. Occorre avere delle idee, dicevo, possibilmente molte. Ma spesso troppe idee rischiano di rivelarsi contrastanti e di creare confusione: occorre dunque scegliere quelle che meglio si adattano allo scopo che si vuole ottenere. Come fare? Evidentemente ciascuno avrà definito un proprio modo di operare. Volendo realizzare un reportage da terre lontane, dove è difficile ritornare, sarà comunque indispensabile fotografare sapendo distinguere soggetti e avvenimenti principali rispetto a quelli accessori, sviluppando a pieno i principali e gli altri come corollario informativo, pronti comunque a cogliere al volo tutte le situazioni che la sorte riserva. Ci sono incontri, visioni, che si possono raccontare con una fotografia e altre che ne richiedono 30. E’ indispensabile prima di mettersi a fotografare, predisporsi uno schema, uno storyboard nel quale ogni idea e ogni momento ha la sua giusta collocazione, dimensione e opportunità. Ordine, proporzione, armonia, nesso logico, unità, chiarezza, concisione, eleganza, sono ingredienti della comunicazione, come le sette note musicali, gli accidenti, le chiavi sono gli ingredienti della musica. E se nella qualità estetica di una fotografia c’è anche l’intensità di uno stile, è vero anche che un rifiuto cosciente dello stile può diventare qualità estetica. Comunque resta il fatto che lo stile ha la sua parte, ma non porta a nessuna conclusione a priori. Alla fine, sarà la somma degli ingredienti opportunamente trattati dal fotografo a determinare il carattere della sua comunicazione. Un processo del genere è implicito, è un’abitudine acquisita, cosciente e soprattutto costante. Si può anche aggiungere che ogni scatto deve avere una giustificazione e deve esprimere qualcosa in modo chiaro, comprensibile a tutti. Occorre che l’immagine proposta sia universalmente comprensibile entro l’ambito della cultura in cui ci si colloca evitando artifici che tendono a porsi al di fuori di un linguaggio universale. L’uso dei mezzi espressivi dovrebbe essere finalizzato alla massima efficacia nei confronti della tipologia di spettatore a cui ci si vuole comunicare. Forme, masse, chiaroscuri, colori, linee, luci ed ombre, toni devono essere armonizzati sia nell’ambito del servizio che in consonanza con il tema affrontato. Oltre tutto ciò importante è la concisione che richiede una fotografia senza fronzoli, la sincerità che è la diretta corrispondenza tra l’animo di chi fotografa e l’idea espressa, l’eleganza che è fatta soprattutto di discrezione, di semplicità, di adesione al tema affrontato, di naturalezza anche di fronte ad interventi operativi ardui. Volendo raccontare un lontano paese si dovrebbe pensare e vedere il territorio naturale, quello industriale, la campagna e i paesi, architetture, centri storici e monumenti, i luoghi della memoria, i luoghi della storia. Tutto questo costituisce la natura fisica delle cose, il prodotto dell’attività umana. Tutto ciò che crediamo per abitudine come realtà è un pretesto per dare visibilità attraverso la fotografia al nostro potere di immaginazione. L’immagine di un vetro rotto fa pensare allo sfacelo di un intero quartiere. Basta poco. La fotografia ricostruisce il visibile solo se noi ne siamo capaci e questo senza regole, se non quelle derivanti dal coinvolgimento con persone e cose. Per dare voce a tutto quanto ci attrae, per trasformarlo in soggetto è necessaria la consapevolezza dello sguardo, la cultura della memoria.

Coscienti, finalmente, che la bellezza, anche quella straordinaria e inquietante, delle cose che ci conquistano e ci commuovono, è sempre, esclusivamente, la proiezione metafisica di quel "bello" misterioso, unico ed irripetibile che, se esiste, abita da sempre dentro di noi.


Se ti è piaciuto scrivimi, per saperne di più spensotti@alice.it

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CORSI FOTOGRAFICI ... WORKSHOP FOTOGRAFICI %u2026 VIAGGI FOTOGRAFICI %u2026

CORSI FOTOGRAFICI ... WORKSHOP FOTOGRAFICI … VIAGGI FOTOGRAFICI …

Nelle tante giornate passate assieme ad altri fotografi abbiamo avuto avuto modo di interrogarci in merito alle tante proposte che negli ultimi anni vengono fatte alla “grande famiglia ” dei fotografi, innanzi tutto a chi le fotografie le fa per passione pura, ma anche a chi le fa, in un modo o nell’altro per lavoro. Mi permetto in queste poche righe di dare un modesto contributo per chiarire cosa sia possibile apprendere in un corso, in workshop o in un viaggio fotografico. Innanzi tutto le tre proposte sono caratterizzate da tre diverse logiche, da diverse metodologie e soluzioni “formative“ (e si, è di questo che si parla, di formazione), che hanno fini e obiettivi molto diversi.

Un CORSO FOTOGRAFICO è di norma centrato su di una serie di “lezioni frontali” che hanno l’obiettivo primario di trasferire semplicemente delle informazioni che “attengono alla materia fotografica”, storia, tecnica, composizione, stili etc etc…, ma poco interroga il partecipante in merito al reale “saper fare” fotografico. E’ una buona soluzione per il neofita, economica e rapida, ma serve più a rilevare le proprie lacune che ad aumentare le proprie capacità.

Diverso è partecipare ad un WORKSHOP FOTOGRAFICO dove l’accento è tutto posto sull'aspetto pratico, sul fare in un ambiente “protetto” dove le difficoltà da affrontare per raggiungere l’obiettivo posto siano superabili dai partecipanti. Un workshop non è un vero e proprio corso di fotografia in quanto gli allievi che vi partecipano hanno già delle sufficienti conoscenze di base, perchè hanno seguito un corso specifico o autodidatti, e sfruttano questa occasione per mettere in pratica quanto appreso e verificare il loro operato nel corso di specifici momenti d’aula e nell’analisi delle fotografie realizzate durante gli “shooting fotografici” che i partecipanti, guidati dal docente, vengono chiamati a fare durante il workshop.

Altra cosa ancora è partire per un VIAGGIO FOTOGRAFICO, più o meno lungo, accompagnati da un fotoreporter che si pone in prima persona l’obiettivo di realizzare uno o più reportage fotografici dai paesi visitati: farete un’esperienza unica ed impagabile, vi confronterete sul campo con un professionista al “lavoro”, scatterete nelle sue stesse condizioni operative confrontandovi con dei soggetti fotografici “molto originali”, sarete chiamati ad operare in prima persona, più dei colleghi che degli allievi del vostro fotografo-accompagnatore. Dovrete essere “fotograficamente autonomi” e dedicarvi alla vostra ricerca fotografica sapendo che solo a sera, forse, potrete riflettere con lui su quanto fatto in giornata e per prepararvi per il nuovo lavoro del giorno seguente. Questa scelta ovviamente comporta anche dei compromessi logistici in merito alle comodità del viaggiare, dei cambiamenti imprevedibili di programma, la necessità di condividere frammenti di vita con la gente del luogo. Sarà necessario un certo spirito d'adattamento e d'avventura, la capacità di abbandonarsi ai ritmi della realtà in cui si è ospiti alla ricerca di un’incontro vero, quel tipo di incontro di cui l’antropologo e scrittore Marco Aime parla in molti dei suoi libri. Un’esperienza meno “protetta” di un workshop, ma che può regalare una “vera” esperienza di viaggio in cui vedere aspetti normalmente negati dai viaggi “tutto compreso”.

Se poi parliamo di SPEDIZIONE FOTOGRAFICA la cosa è ancora diversa, di solito è il fotografo che accompagnerà il gruppo, di norma poche unità, che sceglie ed invita altri fotografi interessati al luogo per cui si parte. Nessuna data certa, non una proposta a catalogo di un Tour Operator, ma un programma che si realizza se incontra l’interesse di “quelle persone” che si ritiene siano veramente interessate al viaggio, non alla vacanza, e siano in grado di gestire gli imprevisti che si verificheranno. In questa situazione c’è poco tempo per briefing e lezioni sul campo, si va a fotografare! Bisogna essere “fotograficamente autonomi”, c’è la figura dell’accompagnatore, il fotografo, che ovviamente gestirà la logistica del viaggio, ma l’obbiettivo prioritario per lui, e per i suoi compagni, è quello di realizzare un degno lavoro fotografico. Se poi c’è tempo e non piove nella tenda ci sarà anche la possibilità di fare qualche ragionamento attorno alla fotografia, fatta e vista. Ovviamente dietro ad una SPEDIZIONE FOTOGRAFICA c’è sempre, ed è meglio che ci sia, la Direzione Tecnica di un Tour Operator che lascia carta bianca ad un fotografo di cui si fida.



© photo: Milena Cocco, Sonia Maggioni, Ivonne Cherubini, Luciano Caleffi, Roberto Leoni, Marco Carnovale, Antonio Porcelli, Olga Prokofjeva.

Se ti è piaciuto scrivimi, per saperne di più spensotti@alice.it

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